L’altro di me

•31 Maggio, 2012 • Lascia un commento

“e vorrei sapere tanto…  dove stai?

ti nascondi così bene e non ti trovo mai,

e così fatico per sentirti e per parlare

ma non voglio fare finta e rinunciare

di capire cosa accade quando sei con me;

se davvero è tutto questo che vorrei per me

frequentarci riempie il cuore  ..è tutto in armonia

e ritrovo un altro me stesso, vedi non sono andato via.”

 

 

L’altro di me..

“good morning sun”

•12 gennaio, 2010 • Lascia un commento

Buongiorno sole,
caldo come un bacio sulla bocca
fermo e sincero come un abbraccio forte,
colmo di gioia e orgoglioso di luce.
Scorza matura che protegge il succo
pulsa di spinta in pause di tremulo ardore e gioia succinta;

“dalle gelide piante della luna
pioggia di mani di foglie di dita di vento
sul tuo corpo.
vado per la tua strada come per un fiume,
vado per il tuo corpo come per un bosco,
come per un sentiero nel monte
che in un brusco abisso finisce,
vado per i tuoi pensieri assottigliati
e all’uscita dalla tua bianca fronte
la mia ombra abbattuta si strazia,
raccolgo i miei frammenti uno a uno
e proseguo senza corpo, cerco tentoni
“Vado per il tuo corpo come per il mondo,
il tuo ventre è una spiaggia soleggiata,
i tuoi seni due chiese dove il sangue
celebra i suoi misteri paralleli,
i miei sguardi ti coprono come edera,
sei una città che il mare assedia,
una muraglia che la luce divide
in due metà color di pesca,
un luogo di sale, roccia e uccelli
sotto la legge del meriggio assorto”

brani Tratti da
“Voy por tu cuerpo” di P. Neruda

gli occhi sono la nostra memoria

•25 settembre, 2009 • Lascia un commento

Se avessi avuto almeno un altra occasione,
adesso che so capire le parole
adesso che so osservare i colori e ascoltare i suoni..
ti ho lasciato andare via senza un minimo di forza.

così come la notte e il giorno
così stanca e inquieta
e adesso è un battito.. un battito smarrito
una sigaretta ormai cenere

ah che sarà..
vive nell’idea questa memoria
vive nella memoria degli occhi
negli occhi di quei ricordi passati che non tornano più.

quella vergogna
quel pudore
quel rossastro senso dell’imbarazzo
tutto il bene… di una notte d’amore

gli occhi sono la nostra memoria
e quando si spegneranno
io che ho avuto solo te
mi accorgerò di aver amato mille cose.

ar

“stupida inconsapevolezza”

•7 giugno, 2009 • 1 commento

Era tanto che non aprivo “quella finsetra”,
ho rivisto quel colore,
non so definirlo, un colore difficile da ricomporre.

Tante cose sono difficili da ricomporre,
tante cose sfuggono e non torneranno più,
non so se questo mi renda triste, malinconico o mi dia semplicemente la possibilità di dimenticare.

Giorni e nuvole passano,
e dentro resta un misto di felicità e tristezza;
troppo spesso mi chiedo se tutto questo, se tutto ciò che sono…
mi rende sereno.

Forse ho perso di vista qualcosa che mi ha sfiorato,
forse le illusioni hanno preso il posto delle certezze che pensavo fossero la voce chiara nei miei silenzi… ma non è così.
Mi sono illuso per troppo tempo di aver bisogno,
di aver necessità.. ma nè bisogno, nè necessità rappresentano il mio essere vivo.

Stavo riflettendo proprio stasera, su quella finestra socchiusa,
“le emozioni” più belle e più forti della mia vita sono emerse proprio quando ho rischiato di essere “me stesso”, riflettevo che in quel richioso avventarsi non era la certezza dell’esistenza che rendeva piene le mie giornate, era semplicemente quell’istinto innato che da sempre è con me: “mi porta a sfidare in ogni angolo del destino le imposizioni, mi porta a sfrenare in ogni campo dell’esistenza i miei impulsi, mi porta ad assaporare il tempo che passa nel retrogusto dell’entusiasmo che invade ogni angolo del mio corpo.”

Proprio oggi che le mie gambe sono ferme, ho rischiato di correre più forte del vento, correre e sgroppare come un cavallo libero di nostalgia. Ho penetrato tutti quegli errori, tutti quei momenti del grande “specchio” in cui “io ero ciò che di bello vedessero gli altri”, “io ero ciò che di sensuale e affascinate assoparassero quei manichini in attesa di essere resi vivi”, forse di buono c’è stato solo quel pò di effimera felicità che a loro bastava prosciugarmi.

Quanti manichini ho incontrato, troppi, parecchi, e ognuno di loro a mia insaputa, mi lasciava un pezzo della loro immobilità; tanto da rendermi solo, stanco e fermo.

Domani non sarà così,
ogni sentimento avrà il suo nome e ogni persona la sua sincera identità, l’illusione aiuta ad idossare tutte quelle maschere che gironzolano intorno, portate con fierezza e con tanta stupida inconsapevolezza.

“14 grammi”

•18 aprile, 2009 • Lascia un commento

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intro

•17 marzo, 2009 • Lascia un commento

” un uomo si sdraiò sulla riva del fiume con i piedi nell’acqua gelida,
la sua espressione non mutava nel vento
con la mano strappava la terra della riva, una terra rossa e fangosa
terra nelle unghie…
acqua fredda che spaccava i talloni.
Era fermo lì e attendeva
non so cosa
non so perchè fosse lì
ma so che il suo sguardo era colmo di… una rabbia impercettibile
infedele coraggio perso,
espressione priva di uomori.

< cosa fai lì?
… è troppo fredda quest’acqua torbida
non rispondi?
> vattene…lasciamo solo
< ero venuto qui per chiederti una cosa
> non voglio ascoltare nulla,
non voglio ascoltare nessuno
vattene se non vuoi questa terra sudicia e fangosa in faccia
< avrei molte cose da chiederti
avrei molte cose da mostrarti
sono certo che ti piacerebbe ascoltarmi
lasciati andare
> Sono uscito presto di casa stamane.. ho camminato molto
scalzo… e senza cappello
mi sono lasciato andare al tempo che passa
ho lasciato i miei piedi insudiciarsi
li ho lasciati gelare
ho lasciato le mie mani riempirsi di fango
ho lasciato il mio capo infreddolirsi e il mio viso spaccarsi
e tu adesso mi chiedi di lasciarmi andare?
< Tu non ti sei laciato andare
ha lasciato che ti abbandonassi
hai lasiciato inerme che i tuoi piedi si gelassero
hai lasciato che le tue mani si sporcassero di fando e che le tue unghie si spaccassero
Sei tu che hai lasciato tutto ciò accadesse.. non ti sei lasciato andare
> Devo tornare a casa
lavare le mie mani
riscaldare i miei piedi
pulire le mie unghie
lasciare che tutta questa rabbia prenda il largo del fiume
e poi forse potro ascoltare quello che hai da dirmi
< … io già ti ho detto tutto
e tu hai ascoltato.”

A.R. 17/03/2009

osservare

•6 marzo, 2009 • Lascia un commento

In tempi remoti, in Giappone, si usavano lanterne
di carta e di bambù con le candele dentro.

Una notte, a un cieco che era andato a trovarlo,
un tale offrì una lanterna da portarsi a casa.

“A me non serve una lanterna” disse il cieco.
“Buio o luce per me sono la stessa cosa”.

“Lo so che per trovare la strada a te non serve una lanterna”,
rispose l’altro .. “ma se non l’hai, qualcuno può venirti addosso.
Perciò devi prenderla”.

Il cieco se ne andò con la lanterna,
ma non era ancora andato molto lontano
quando si sentì urtare con violenza.”

Guarda dove vai! ” esclamò il cieco allo sconosciuto.”
Non vedi questa lanterna?”.

“La tua candela si è spenta, fratello”
rispose lo sconosciuto.

________
racconto Zen

confessioni

•12 febbraio, 2009 • Lascia un commento

Ieri ho detto a mio padre:
“Se un giorno dovessi trovarmi in un letto
con gli occhi aperti e assenti
con la bava che cola dalla bocca
con le mani immobili
con i piedi freddi
con i calli alle guancie
con le piaghe su tutto il corpo
senza luce nel mio sguardo
senza la possibilità di poter gustare gli spaghetti
senza la possibilità di poter fare l’amore
senza la possibilità di potervi dare un bacio
senza la possibilità di potervi sorridere
senza la possibilità di poter piangere,
di poter fumare
di poter provare rabbia
di poter correre
di poter incontrare i miei amici
di poter montare il mio sahel
di poter accarezzare i miei cani
di poter guidare la mia auto
di potermi sdraiare sulla sabbia
di potermi bagnare nel mare
di potermi godere un tramonto
di potermi lavare da solo
di potermi svegliare nella notte
….
non avere rimpianti… amami fino in fondo
come hai sempre fatto,
in quell’istante chiudi gli occhi e ricordati di com’ero
e sappi che anche se io potessi ascoltarti
vedervi lì accanto a me scoprendo ogni giorno che ci siete,
io non sarò vivo,
abbi il coraggio di lasciarmi andare
perchè solo chi ha coraggio ama vermente.
E adesso fottitene di tutto il resto,
spegni la luce e lasciami dormire.”

Jane – Capitolo 2

•3 febbraio, 2009 • Lascia un commento

Giò osservava quella cavalla, anche io fui molto colpito dai suoi occhi, sembrava così triste e spaesata, il puledro accanto a lei immobile che osserva il resto della mandria sgroppare all’impazzata.
Qualcosa non andava, dopo ore ed ore di viaggio chiusa in un trailer non sentiva la necessità di liberare il suo istinto; la osservavo e non riuscivo bene a capire, Giò si avvicinò allo zio, li sentivo farfugliare ma non volevo assolutamente sapere che stessero dicendo quei due.
Essere lì mi faceva stare bene, sentire e vedere quegli splendidi animali era uno spettacolo che mi riempiva di gioia, tanti ricordi e tanti pensieri mi frullavano nella mente.. ma cercavo di essere quanto più razionale è possibile, non potevo lasciarmi andare, pensando pensando mi avvicinai a Giò.
Quella cavalla tanto triste era stata maltrattata, l’avevano recuperata in un allevamento in cui i bastoni erano più veloci delle carote, anzi forse lì le carote non c’erano mai state, che tenerzza mi faceva, adesso era tutto chiaro… lei non poteva essere felice.. non poteva permettersi di gioire, non sapeva cosa significasse essere libera di sentirsi una cavalla.
Lo zio di Giò ci spiegò che ormai una cavalla in quelle condizioni non avrebbe avuto molte chance, non avrebbe avuto facili acquirenti, e purtroppo, dopo aver svezzato il puledro se non vi era altra soluzione sarebbe finita al macello.
Un angoscia tremenda, si questo è il sentimento che provai in quell’attimo, anche il sorriso di Giò si spense e lo sguardo rassegnato di quella cavalla mi entrò dentro, in quell’attimo mi identificai con lei.., sapere che la tua storia era quasi giunta al termine, che quel poco di vita vissuta era stata solo sofferenza, .. lei questo lo sapeva o almeno lo avvertiva lo si leggeva nei suoi occhi, nel suo capo chino, nel suo essere assente, fu una scena che non auguro a nessuno.
Morire non significa essere colpiti, non significa smettere di respirare… morire per me significa spegnersi un poco alla volta , lentamente rassegnarsi a non vivere, sapere che non vi è via di uscita.
Ho sempre pensato alla morte, forse perchè sono troppo attaccato a questa vita, ma più che alla mia morte ho sempre immaginato la morte delle persone che amo, è il dolore più grande.. un dolore che non ha sollievi, quando si muore io non sentirò più nulla.. quando morirà un mio amore sentiròper tutto il resto dei miei giorni quel silenzio.
Io questo non potevo permetterlo: La prendiamo noi.
Giò mi guardò.. i suoi occhi si illuminarono e non dimenticherò mai più quell’abbraccio ” io lo sapevo” mi disse… “lo sapevo anche io” risposi,
” e mo verimm commamma fà”.
Non mi ero pentito di quella frase… non mi pentirò mai di aver pronunciate le uniche parole vive.. dentro me sapevo fortemente che se io fossi stato un cavallo e lei una ragazza.. Jane avrebbe detto la stessa cosa.
Ho detto Jane? si l’ho detto… la chiamammo così

Jane

•29 gennaio, 2009 • Lascia un commento

CAPITOLO 1 (29/01/2009)

Era una fredda giornata di Gennaio e il recinto era pieno di fango.
Piovigginava, e io stavo lì in piedi, davanti allo steccato, il respiro formava nebbia davanti ai miei occhi.
Nella fretta d’arrivare, ero uscito di casa senza nemmeno il cappello e senza guanti: correndo da casa avevo afferrato al volo solamente la giacca a vento dal solito appendino nell’ingresso.
Se mi fossi fermato a riflettere, avrei fatto ciò che facevo sempre quando sentivo il telefono trillare:
niente, o al massimo avrei aspettato che qualcuno rispondesse.
Questa volta, però, quando la mia amica mi aveva telefonato per dirmi che all’allevamento di “Santa Veneranda” erano appena arrivati una decina di cavalli, avevo agguantato la giacca ed ero salito in macchina.
Non so perchè questa volta fosse andato così, perchè in un istante, avessi deciso di fare qualcosa che prima avevo sempre evitato. Non ero abituato a correre per andare a vedere cavalli, anche perchè se corri, loro corrono più di te, e poi il cavallo non è mica un cane? L’avete mai visto un cavallo da vicino? E’ enorme..il viso potrebbe risultare anche simpatico, ma è grosso.. proprio grosso, ha due gambe più lunghe delle mie.
Allora che cosa ci facevo davanti a quello steccato a guardare dieci cavalli “incazzati” che schizzavano fango dappertutto.. c’erano anche 3 femmine, non sono un inteditore, ma penso che i puledri seguono le mamme.., tutti seguiamo sempre le mamme e quei tre puledri avevano un espressione del tipo: ma che ci faccio qui? bhè io seguo mia madre così non sbaglio mai.
MI chiedevo perchè avevo risposto a telefono, a una amica poi che quando chiama.. fingo sempre di non esserci, è una che parla parla.. e io mi stanco, mi stanco a starla a sentire.
Forse sarà stata una reazione automatica dovuta a un amore antico e profondo per gli animali, un amore che mi porto da quando ero piccolo, qualsiasi animale vedevo in strada volevo portarlo a casa, non per possederlo ma per curarlo, assicurarmi che avesse sempre cibo a disposizione, un posto dove poter dormire, gli animali in strada mi hanno sempre fatto molta tenerezza e Giò lo sapeva, per questo alcuni giorni prima mi aveva accennato che lo zio doveva importare dei cavalli dall’estero e che appena arrivati voleva mostrarmeli.
Però a dirvela tutta non è che dei cavalli non me ne fregasse proprio “un fico secco”, altrimenti non balzavo come un fringuellino, anzi, conoscendomi sapevo che dentro quel ricordo mi turbava un po e al tempo stesso mi suscitava rimpianto per un mondo ormai scomparso, fatto di carrozzine, ferri appesi ai muri, balle di fieno.. tante balle e quell’odore di cavallo che ti rimane addosso anche dopo che ti sei “docciato” uno, due, tre volte.. si anche tre volte.
Un ricordo che mi portava indietro di tanti anni, quando i miei zii, mio nonno avevano tanti cavalli, io avevo solo sette anni e intorno a me un ‘interrotta fiera di cavalli: ogni giorno, dappertutto, sempre.
Io osservavo mentre li strigliavano, con la pompa dell’acqua per ore bagnavano gli zoccoli e le gambe, per la circolazione del sangue dicevano e quanta paia di stivali, di spazzole e di finimenti tutti in cuio appesi al muro con dei chiodi dalla testa grossa.
Guardando pensavo che fosse ingiusto non essere nato in un epoca in cui i cavalli rappresentavano l’unico mezzo di trasporto. Mai avrei pensato di averne uno, una responsabilità troppo grande, il problema di dove tenerlo, essere incapace di soddisfare tutte le sue necessità, un cavallo ha bisogno di un cavaliere esperto, una persona che sa gestirlo, accudirlo e anche muoverlo, eh si, ricordo che mio nonno lo toccava solo leggermente e lui “Igor”.. si muoveva subito: avanti, indietro, di lato lo faceva persino abbassare, si sdraiare a terra e poi lo accarezzava dappertutto e mi diceva: ” i cavalli vanno accarezzati ritmicamente, così si calmano, e quando lo sei riuscito ad accarezzare tutte le parti del suo corpo .. lui saprà che tu sei suo amico e tu saprai di avere un fedele compagno”.
Quelle parole me le ricordo ancora “fedele compagno”… bhè forse Igor era proprio il suo compagno ma “sti pazzi” scatenati quando si lascieranno accarezzare dappertutto.
Accanto a me, difronte al recinto c’era Giò, parla tanto Giò ma quel giorno nono disse una parola, stava lì ad osservare una cavalla che si era separata dal gruppo e con il suo puledro era rimasta in un angolo del paddock ad osservare tutti gli altri che si divertivano.
Si dovranno pure sgranchire le gambe dopo ore e ore di viaggio, lei invece era lì in quell’angolo e Giò la fissava con il sorriso sulle labbra, questa cosa mi iniziò a preccupare, quando giò non parla significa che pensa tanto.. e se pensava troppo era pericoloso, anche per me.